Biografia Antonio Villani

Attore alle origini

LE ORIGINI

Originario di Castellabate,  un piccolo paese costiero nella provincia di Salerno, sul mar Tirreno, a 20 km a sud di Paestum; antica città della Magna Grecia, situata alle porte occidentali del Parco nazionale del Cilento.

“Non potrò mai essere un uomo di periferia, perché io sono il centro del mia esistenza”  

(Antonio Villani) 

 


***

 …e il naufragar m’è dolce in questo mare

 

Ed è così che arriva la vita, Senza un motivo preciso. All’improvviso per volere di qualcuno che non sei tu.

“I due giorni più importanti nella tua vita sono il giorno in cui nasci e il giorno in cui scopri il perché sei nato.”

(Mark Twain)

Mio padre aveva appena ventisei anni quando si è sposato, mentre mia madre ventitré. Dopo aver completato la scuola allievi dei carabinieri, mio padre aveva ricevuto il suo primo incarico a Castelgandolfo, un piccolo paese a sud di Roma, residenza estiva del Papa, sull’omonimo lago; mia madre ovviamente dopo il matrimonio l’ha seguito.

L’anno successivo vengo al mondo, e per volere di entrambi i genitori, ad Agropoli, nel primo ospedale più vicino al mio paese di origine, Castellabate. Questa decisione di farmi nascere al sud, fu presa affinché accanto a mia madre potessero esserci le attenzioni e l’affetto dei familiari.Quando si vive da emigranti soprattutto i primi tempi non ci si rende conto di quanto in realtà ci si senta soli; se si ha la fortuna di avere un bambino  è comprensibile che oltre alla gioia ci sia anche la preoccupazione di come comportarsi, soprattutto se si si è così giovani ed allo stesso tempo così privi di esperienza..

Ma destino ha voluto che qualcosa non andasse per il verso giusto.

Visti gli anni e le strutture ospedaliere di un paesino del sud Italia,  il parto ha avuto inaspettatamente delle complicazioni che hanno segnato per sempre il mio destino. Se “Cristo si è fermato ad Eboli”, venendo chissà perché dal nord, fatalità ha voluto che io nascessi qualche chilometro più a sud.

Spesso mi sono cercato di dare delle spiegazioni logiche sul perché mi sia capitato, e sul fatto che forse mi sarebbe davvero potuta andare peggio.Ma dalla vita non ci si possono aspettare altro che sorprese. Una vita priva di colpi di scena è una vita piatta, scialba, che porta inevitabilmente ad una morte altrettanto noiosa. Le battaglie si vincono facendole e non soltanto parlandone.

 “Mio padre e mia madre mi hanno fatto nascere senza la pelle, perché fossi ferito dal vento”

(Tomas Milian)

Durante la mia infanzia e nel mio periodo di confusa coscienza giovanile spesso mi è capitato di rimproverare ingiustamente la scelta dei miei genitori, creando io stesso un clima di continuo scontro e di conseguente reciproca incomprensione. Poi, con l’avvento della maturità, ho realizzato con lucida coscienza che le sole persone al mondo che mi amano davvero sono i miei genitori.

Come sarebbe stata la mia vita adesso, in questa società  di modelli di falsa perfezione, se fossi nato altrove, se fossi nato senza resistenze, così come nascono migliaia di altri bambini?

“Voglio raggiungere l’imperfezione ed in questa mia perfetta imperfezione contribuire a liberare il mondo dal falso perfetto”

(Antonio Villani)

La  verità è che non avevo alcuna intenzione di nascere, di venire a questo mondo; forse perché sentivo già in quella sala parto le grida di un mondo affaticato, arrogante, egoista; ma ormai ero ad un punto di non ritorno, ed un intervento maldestro durato diverse ore durante il parto e l’assenza di personale specializzato mi hanno causato un problema congenito agli occhi. Il problema è andato peggiorando fino al punto da sentirsi dire dagli specialisti, alla sola età di cinque anni  : “Se gli occhi continueranno a peggiorare in questo modo, vostro figlio diventerà cieco”. Profezia per fortuna scongiurata, ma che comprensibilmente ha influenzato tutti i miei anni avvenire.

Come si sarebbe sentito un genitore di fronte a tali parole, e come  mi sarei sentito io se fossi stato genitore? Ma per fortuna io ero solo il diretto interessato.

Ormai era fatta! Non restava che vivere! Ma come?

Con la paura di giocare come fanno tutti gli altri bambini, con la paura di sentirsi una persona “normale”.

Nello stesso tempo dovevo studiare e dovevo e volevo farlo come tutti gli altri, anzi meglio degli altri, per dimostrare a me stesso che  nonostante vedessi il mondo in maniera diversa, io mi sarei potuto meritare un posto tra la gente normale.

Ma in realtà io questo mondo comunque lo vedevo nella nebbia; non riuscivo a distinguere le lacrime sul volto delle persone, ma riuscivo ad ascoltarne i loro silenzi. Vedevo il mondo senza contorni, come in un quadro di Monet, ma contemporaneamente però riuscivo a  viverlo chiaramente nella profondità dei suoi silenzi. Non riuscivo a capirne il perché e non possedevo gli strumenti per poter utilizzare tutto questo a mio vantaggio. Non vedevo male, vedevo diversamente.

Ed è per questo che un giorno ho rivoluzionato in qualche modo le mie scelte. Sono passato da una vita comune di dolore e paure, da “straniero di me stesso”,  ad una vita di cambiamento in cui  il dolore e le paure non sono il tutto, ma diventano soltanto una parte del tutto, trasformandosi in un motore di risorse attraverso cui esprimersi.

Bisogna imparare a distogliere l’attenzione dal risultato e a concentrarsi, senza avere fretta, sul percorso, sul passo che quotidianamente è necessario compiere per raggiungere una goccia di gioia in un mare in perpetuo movimento.

“Per vivere con onore bisogna struggersi, turbarsi, battersi, sbagliare, ricominciare da capo e buttare via tutto, e di nuovo ricominciare e lottare e perdere eternamente.  La calma è una vigliaccheria dell’anima.” 

(L. N. Tolstoj)

Così dopo la mia nascita ho iniziato a vivere; ormai non potevo più tirarmi indietro. Ormai non potevo fare altro che proseguire a tastoni in avanti.

Ogni giorno una scoperta, ogni giorno un giorno in più, verso la crescita, verso la conoscenza; ma anche un giorno in più che inevitabilmente porta alla chiusura del cerchio  eterno della vita. E mentre i giorni passano uno dopo l’altro, nessuno è a conoscenza della lunghezza del perimetro del cerchio.

“I secondi rincorrono i minuti, i minuti le ore; le ore rincorrono i giorni, mentre noi rincorriamo noi stessi, perdendo dalle tasche preziose pepite di tempo”

(Antonio Villani)

Per i primi venticinque anni della mia vita,  mi sono concentrato sui risultati o meglio sul desiderio di ottenere dei risultati, perdendo di vista il percorso, perdendo di vista me stesso. Soltanto dopo la mia partenza dall’Italia, avvenuta anche grazie all’ausilio di cinque anni  di scrupoloso percorso psicanalitico, ho compreso quanto sia importante, nel cammino, non tanto la strada, quanto il passo.

Successivamente, durante i cinque anni seguenti di studi in Accademia in Russia, sono riuscito a comprendere l’importanza dei dettagli, l’importanza dell’attesa, della pausa, della sconfitta e della vittoria sulla sconfitta, che non è un risultato, come si potrebbe erroneamente pensare, ma un nuovo piccolo passo, che mi ha dato la possibilità di proseguire oltre.

“La vita è uno spartito finito, fatto di note, contrappunti e pause; è nostro compito eseguirlo, ed eseguirlo al meglio, accarezzando le corde della nostra anima.”

(Antonio Villani)

 


***

Ed io allora mi chiedo

 

Fin dal mio primo anno di età ho vissuto, durante l’inverno a Genzano di Roma, un piccolo paese dei Castelli Romani, immerso nel verde e nella tranquillità di una cittadina di provincia a sud della Capitale. Lì mio padre e mia madre hanno comprato un appartamento trasferendovisi dalla casa in affitto a Castel Gandolfo.

Trent’anni sono dovuti passare affinché i miei genitori potessero estinguere il mutuo per l’acquisto dell’appartamento. Trent’anni di vita per potersi finalmente sentire, anche loro, “padroni di se stessi”; sacrifici che hanno fatto per noi figli, per farci vivere meglio di come hanno vissuto loro in gioventù.

Ed io allora mi chiedo: “Che cosa sto facendo e che cosa ho fatto io per meritarmi tutto questo? Cosa potrò fare io in futuro, affinché possa sentirmi parte integrante in questo processo di crescita?”

Si è partiti dalla miseria dei miei bisnonni costretti a cercare fortuna in America, per poi passare alla semplicità dei miei nonni, vissuti con i frutti di una  terra fin troppo bassa da coltivare. Poi ci sono i miei  genitori che sono dovuti emigrare nella capitale, per poter cercare un lavoro  onesto e stabile, con cui far crescere i propri figli a contatto con una realtà che offrisse maggiori possibilità di sviluppo.

E adesso?  Cosa potrò fare io adesso? Dove sto andando con questo bagaglio tramandatomi da generazione in generazione? Con quali valori potrò educare i miei figli, se un giorno avessi il coraggio di farli nascere in questo mondo claudicante? Come potrei difenderli dall’arroganza di un mondo egoista, consumista ed ipocrita? Come potrei insegnare ai miei figli a credere che la vita non ha soltanto sfumature di grigi? Come potrei insegnare ai miei figli a credere che in realtà  la vita è un arcobaleno;  un arcobaleno che giorno dopo giorno, dobbiamo imparare a colorare, con i colori della nostra esistenza e con il coraggio delle nostre azioni?

Ma è poi proprio vero che adesso si vive meglio di prima?

 


***

A piedi nudi

 

Fin da bambino, durante i mesi invernali, studiavo e cercavo di farlo al meglio, al limite delle mie possibilità, per dimostrare inconsciamente a me stesso ed ai miei genitori, di non essere soltanto “difettivo”, ma di possedere anche delle capacità come tutti gli altri bambini; capacità che non potevo capire di avere. Non sapevo come e dove indirizzare le mie energie affinché le mie potenzialità potessero essere riconosciute e sviluppate, in modo tale da sentirmi un bambino come tutti gli altri.

Gli adulti che mi circondavano avevano sempre una nota di commiserazione nel vedermi con occhiali così spessi, che di anno in anno diventavano sempre più pesanti. I bambini invece a scuola erano semplicemente crudeli nella loro verità.

Spesso abbassavo lo sguardo per non permettere alla gente di guardarmi negli occhi, convinto nella mia innocenza che questo mi potesse aiutare ad essere considerato come tutti gli altri bambini “normali”, o magari a fare in modo che il mio problema non venisse notato. Così alla sola età di nove anni ho iniziato ad indossare le lenti a contatto fino a rischiare altre complicazioni. Si voleva chiaramente nascondere il problema, quando invece lo si poteva utilizzare al meglio per crescere in maniera diversa, per sentirsi davvero diversi; non con un difetto da eliminare, ma con un pregio ed una possibilità in più da sviluppare, per sentirsi unici nella propria perfetta imperfezione.

Ma perché dovevo nascondermi? Da cosa? Sicuramente dall’ignoranza di coloro che ignorano la diversità; sicuramente dalla società; la stessa società che fin da bambino io ho imparato a rigettare e dalla quale oggi mi sento felicemente straniero e completamente distaccato. Una società falsa, opportunista e classista che è sempre alla continua ricerca di una perfezione irraggiungibile. Stereotipi su cui una deplorevole società fonda i suoi falsi dogmi. Una ricerca del “perfetto” che annienta l’individualità, che annienta la libertà di sentirsi quello che si è veramente.

“Colui che segue la folla non andrà mai più lontano della folla. Colui che va da solo sarà più probabile che si troverà in luoghi dove nessuno è mai arrivato.”

(Albert Einstein)

Ed è così che ad autunni tristi in cui compievo gli anni, che aggiungevano malinconia alla mia già solitaria quotidianità; ad inverni grigi ed in solitudine nella mia camera, senza che la mia famiglia mi potesse o sapesse tramandare l’amore per la cultura, per la musica, per l’arte, per la letteratura, per lo sport; a primavere di attesa chiuso in casa nella solitudine dei miei silenzi, mentre fuori tutto si svegliava e rinasceva; ebbene a tutto questo finalmente seguivano estati in libertà, lontano dalla città, lontano dai miei silenzi e dalle mie solitudini; finalmente a casa, quella vera. Finalmente al sud, dai nonni a Castellabate. Una volta terminate le scuole, io con i miei nonni materni avevamo tre mesi interi per stare insieme; tre mesi per vivere felice la serenità della mia infanzia. Quella serenità che non riuscivo a vivere per tutti i restanti mesi dell’anno tra le mura di un appartamento in città.

Ricominciavo improvvisamente a percepire il mondo con tutti e  cinque i sensi che la natura mi aveva donato. Tutti e cinque i sensi si risvegliavano e lì dove non c’era la vista a sufficienza per vedere nettamente i contorni di ciò che mi circondava, c’era il cuore per sentire l’immensità dell’eterno che mi scorreva davanti nella sua semplicità, attraverso i miei nonni ed attraverso il mondo in cui vivevamo. Profumi, sapori, colori, suoni di un lingua dialettale antica che ho imparato a parlare, a rispettare e a difendere.

Estati di caldo e profumi e sapori della mia terra, della terra che sentivo che mi apparteneva. Profumo del grano appena tagliato, profumo di arance e di limoni appena raccolti. Profumi che ancora adesso non posso trovare altrove: profumi del pane e della pizza fatti in casa, appena sfornati, e della cenere calda del forno a legna; profumi e sapori di ricette antiche, da secoli tramandate di generazione in generazione; profumi della natura; profumi della mattina presto quando ci si alzava per andare in campagna; profumi dei fiori che sbocciavano e che così attentamente mia nonna curava, rendendo la casa un paradiso di specie diverse di piante.

E poi la vita a diretto contatto con la saggezza di chi aveva vissuto la storia. I giri in vespa con mio nonno, i profumi dei vestiti che indossava, i profumi della pelle che utilizzava per aggiustare le scarpe. Mio nonno era un omone alto, con i capelli bianchi, lo vedevo spesso seduto su una piccola sedia di paglia davanti ad un vecchio banchetto che aveva costruito anni addietro per metterci tutti gli utensili da lavoro; e mentre cambiava qualche tacco o cuciva o lucidava, da dietro i suoi vecchi occhiali, spesso alzava lo sguardo su di me e mi raccontava storie di guerra e di vita, poi allungava lo sguardo fuori dalla finestra o dalla porta, per salutare i passanti o  per vedere nel silenzio il mare, quel mare su cui hanno navigato interi popoli e che non è mai cambiato da secoli.

Soltanto quando ci si trova di fronte a tanta bellezza, si capisce quanto siamo piccoli e mortali dinnanzi all’eternità della natura, dinanzi all’immensità del mare.

Estati di voglia di vivere. Estati in cui avevo la possibilità di sentirmi protetto da un amore semplice e senza pretese, lontano il più possibile da quella società distratta e perfettamente imperfetta. Estati in cui avevo la libertà di sentirmi felicemente sporco di terra a correre sempre a piedi nudi e non importa dove. Cadere e rialzarmi per imparare a sentirmi libero.

Ma la vita si contrappone alla morte ed ecco che quando avevo soltanto undici anni mio nonno Pasquale, quell’omone di oltre cento chili, forte e sempre allegro, sempre con la battuta pronta,  improvvisamente muore. Ricordo i suoi occhi su un letto d’ospedale, non potevo credere che quella fosse l’ultima volta che avrei visto il suo sguardo, lui lo sapeva, io no. Lui mi ha salutato con gli occhi facendomi capire quanto mi voleva bene, mentre io di fronte alla malattia ero impietrito accanto al letto, non sapevo cosa dire, non sapevo nemmeno cosa stesse succedendo; e dopo qualche giorno da quel silenzioso saluto lui è morto. Ricordo il rumore che ancora adesso mi porto dentro e che mi provoca una sensazione di enorme vuoto, ed è il rumore del legno del coperchio della bara e del giravite elettrico che lo fissa. Ancora oggi il profumo dei fiori strappati alla vita, quel profumo forte di fiori, misto a candeggina, mi ricorda la morte; quella mia prima esperienza con la morte, che mi ha strappato quegli unici momenti di gioia e di vita spensierata, che mi permettevano di essere liberamente me stesso.

Mia nonna Emma ha continuato a vivere, fortunatamente; ha continuato con forza a fare quello che faceva sempre, e lo ha fatto per i restanti venti anni successivi. Una donna d’altri tempi semplice e generosa, di una generosità unica che possiedono soltanto quelle persone che durante tutta la loro vita hanno sofferto. E’ morta a novantuno anni e sembra strano dirlo, ma non per vecchiaia; la causa principale della sua morte è stata il morbo di Parkinson e le conseguenze di una terapia di mantenimento. Ricordo che l’ultima volta che l’ho incontrata in un letto della piccola stanza della casa di cura dove era ricoverata, già non mi riconosceva più. Non sono potuto andare al funerale perché ero in Russia ad inseguire me stesso. E mentre sogno, facendo piccoli passi, “la vita fugge et non s’arresta una hora” perdendo pepite di tempo prezioso con le uniche persone che mi hanno davvero amato. Ed allora mi chiedo quanto in realtà valga la pena inseguire un sogno, così lontano da casa, lontano da quei profumi, da quei colori, da quei sapori, da quei pezzi di storia antica, perdendo così attimi preziosi di vita, che non torneranno mai più. Perdendo frammenti di se stessi, da straniero in una terra straniera.

Ma cosa sarebbe una vita senza sogni?

 


***

Vento contrario

SCHEGGE DI CIECA ADOLESCENZA

 

La scomparsa improvvisa di mio nonno è stata la mia prima esperienza a diretto contatto con la morte, segnando inevitabilmente i miei anni avvenire. Che cosa ne potevo sapere io della morte? Io che non riuscivo a vedere bene nemmeno la vita.

“Vi sono perdite che comunicano all’anima una sublimità, nella quale essa si astiene dal lamento e cammina in silenzio come sotto alti neri cipressi.” 

(Friedrich Nietzsche)


E’ stato come se all’improvviso quell’angolo in cui avevo la possibilità di sentirmi protetto e sereno, cessase di esistere; lo percepivo ormai non più come un nido in cui mi sarei potuto riparare, ma come un luogo in cui mi sarei nuovamente dovuto nascondere e da cui mi sarei comunque dovuto continuare a difendere. Quelle estati in cui avevo la libertà di correre a piedi nudi, si trasformarono, pian piano, in estati di lavoro, che di anno in anno diventavano sempre più impegnative.

Cosa sarebbe successo se quel tempo lo avessi dedicato ad imparare a suonare uno strumento musicale, a studiare una nuova lingua, a dipingere quei paesaggi, ad imparare a raccontarli?  Cosa sarebbe successo se fossi stato educato all’arte e all’amore per l’arte? Ed invece no, non è andata così; allora si diceva che non c’era la possibilità economica, perché questo accadesse nella mia famiglia. I miei genitori dovevano sostenere il mutuo della casa, della macchina, ed oltre alle spese quotidiane dovevano provvedere alla salute dei miei occhi  che di anno in anno andavano peggiorando; tutto questo con il solo stipendio di mio padre, che aveva da poco iniziato la carriera nell’arma dei carabinieri.

I miei genitori si sono accorti del mio problema quando avevo solo quattro anni. Da un giorno all’altro mi sono ritrovato a dover indossare pesanti occhiali, con spesse lenti antiestetiche di vetro, che mi sfiguravano il volto, nascondendomi completamente al mondo. Le lenti erano pesanti e gli occhiali cadevano facilmente, rompendosi.

Sono così cresciuto con il timore, e la quasi certezza, di diventare prima o poi cieco.

Non ero un bambino eccessivamente vivace, anzi, avevo avuto un’educazione sempre molto rigida e composta; ero soltanto un bambino che voleva sentirsi libero di correre e di giocare; libero come tutti gli altri bambini normali.

L’unico strumento che mi dava la possibilità di vedere e di avere un contatto con il mondo, erano le mie  “protesi” . Senza di loro ero completamente perso. A soli nove anni ho iniziato ad indossare le lenti a contatto per nascondere il mio difetto. Stavo male, mi vergognavo, volevo sentirmi “normale”.  L’occhio cresceva,  cambiava la sua curvatura e la lente non aveva mai un appoggio ideale all’interno dell’occhio; spesso bastava una semplice distrazione perché le perdessi. Se cadeva una lente a contatto, e succedeva molto spesso, l’unica cosa che potevo fare era toccare a tastoni il pavimento, lì dove presumibilmente pensavo che fosse caduta; altro non potevo fare, e lo facevo con la paura e l’angoscia di non poterla più ritrovare. Sono cresciuto con questa continua paura di perdermi e di rimanere solo.  Come potevo ritrovare la strada di casa? Se si rompevano gli occhiali dovevo aspettare quasi un mese perché ne avessi un paio nuovo, e per un mese avevo enormi difficoltà a vivere normalmente. Vedevo il mondo scheggiato da dietro le spesse lenti.

Non potevo essere autosufficiente. Ma nonostante tutto. il mio orgoglio e la mia caparbietà mi hanno permesso di imparare ad arrangiarmi da solo, senza l’aiuto di quella società che mi rinnegava. Non chiedevo mai aiuto a nessuno; se cadevo, dovevo rialzarmi e dovevo farcela con le mie gambe.

Perché chiedere aiuto ad un società che mi rifiutava, ridicolizzandomi per il mio aspetto? 

Ogni volta che rompevo una lente o la perdevo, mi sentivo colpevole di essere nato, di avere questo problema che gravava sulla mia famiglia e che rendeva infelice non soltanto me, ma tutti coloro che mi circondavano e che mi volevano bene. Capivo che per loro era difficile e per me quelle orribili “protesi”, che per tutta la vita hanno sfigurato il mio volto, erano vitali e ne valeva della mia sopravvivenza, in questo mondo di perfette imperfezioni.

Mio padre lo spesso delle volte era impegnato per lavoro; era costretto a fare gli straordinari per poter riuscire a sostenere economicamente la famiglia. Ha sempre lavorato dalla mattina presto alla sera tardi. Usciva di casa quando io ancora dormivo e rientrava quando io ero già quasi a letto. Ha fatto questa vita per quarantadue anni. C’erano appena i soldi per mangiare e per le spese, ma non c’era la presenza di un padre con cui condividere le mie giornate, ed è stato sempre troppo tardi recuperare il tempo perduto, soprattutto dopo la mia partenza per la Russia.

Ma oltre a problemi oggettivi, c’era anche il problema culturale. La bellezza ed i profumi di quella terra, e di quelle tradizioni, andavano a scontrarsi con l’assenza di stimoli di ricerca verso qualcosa di più elevato.

Per i miei nonni esisteva il duro lavoro dei campi, la messa domenicale, in cui mi capitava spesso di fare il chierichetto; le feste religiose, le processioni per le vie di Castellabate. Un’educazione fondata su quello che allora era considerato indispensabile per la vita: il lavoro onesto e la religione come forma di conforto, contro i mali dell’esistenza.

Crescendo in un ambiente cattolico, con il tempo, ho potuto trarre delle conclusioni in merito al ruolo che la religione ha avuto nella mia infanzia.

“La religione è l’oppio dei popoli”

(Karl Marx)

A mio avviso ogni forma di religione, nessuna esclusa,  opprime la libertà del singolo, rendendolo schiavo e dipendente da un sistema ipocrita ben consolidato. Ma allo stesso tempo sono convinto che il credo debba essere ben distinto dalla religione. La religione non è solo pretesto di guerra tra popoli, ma una forma di sudditanza, dove la vita e la libertà del singolo individuo  dipendono da precise leggi morali, applicate per porre il proprio controllo sull’ignoranza di un popolo.

Sono nato e cresciuto in una famiglia tanto onesta quanto, allo stesso tempo, chiusa nella sua semplicità rurale di provincia; una famiglia incapace di liberarsi da quei limiti sociali che rendono ogni individuo, a sua insaputa, schiavo di se stesso.

“La vita è sogno e merita di essere vissuta in ogni suo attimo come in un sogno; un sogno più o meno lungo, da cui ci si risveglia soltanto con la morte.”

Avevo appena terminato le scuole medie, a tredici anni compiuti, quando i miei genitori decisero di non lasciarmi, in estate, allo sbaraglio, ma di mandarmi a lavorare come cameriere, in un albergo, non lontano dalla casa dei miei nonni a Castellabate. L’albergo dove lavoravo d’estate era diventato la mia casa, avevo iniziato a  lavorare per me stesso. Ma dov’era l’arte, la musica, la lettura. Non c’era nulla di tutto questo. Non c’era il tempo, la forza e la cultura. Il ritmo di lavoro era difficile a volte estenuante. Ma non potevo tirarmi indietro e dimostrare di non potercela fare. Non potevo dimostrare di avere dei limiti.

Nonostante fosse troppo presto per iniziare a lavorare, comunque nel mio inconscio credevo che quella fosse la strada giusta per responsabilizzarmi e per iniziare a sentirmi come tutti gli altri; dovevo riuscire a dimenticare, dovevo imparare a non vedermi, a distrarmi dal mio vero io. Ma chi erano “tutti gli altri”? Erano quelli sani che non avevano difetti come me?

 Quelli che definivo “sani”, gli “altri”, credevo nella mia cieca illusione, che vedessero nitidamente il mondo, meglio di me; ma in realtà non era così. Loro, si,  vedevano il mondo, ma in maniera più miope di come lo vedessi io; inseriti, senza avvedersene, in un contesto di dogmi sociali soffocanti.

Un mondo rurale semplice, in cui si lavora per mangiare e si lavora duramente; un mondo dove non c’è il tempo e non c’è il modo per comprendersi e per approfondire la conoscenza con se stessi. Un mondo dove sono rare le occasioni in cui si formino identità capaci di andare oltre il pensiero comune.

In inverno studiavo cercando di ottenere buoni risultati in un liceo scientifico, sperimentale in informatica e fisica a Genzano, alle porte di Roma. Non so cosa mi avrebbe potuto dare il liceo; ero un ragazzo introverso, studiavo perché dovevo farlo, meccanicamente, senza amore e senza curiosità, ma al meglio delle mie possibilità. Con il tempo ho compreso che quegli anni al liceo, sono stati importanti; è stato anche grazie a quegli anni, che ho potuto poi maturare i miei studi in seguito, possedendo sia una formazione scientifico-matematica che poi filosofico-letteraria.

Durante gli anni del liceo, come sempre, in estate lavoravo. Ma avevo bisogno di sentirmi non soltanto un bracciante, ma anche un adolescente che, come tutti, può in estate avere l’illusione di trovarsi in vacanza. Guardavo spesso con invidia i ricchi figli di papà, che potevano riposarsi, che avevano una vita agiata; erano in vacanza e si sentivano superiori a chi li serviva; senza esserselo guadagnato, vivevano la loro normalità, mentre io ero costretto a lavorare per guadagnarmela.

Non esistevano giorni senza lavoro. Ed è così che dopo il lavoro, dopo un’intera giornata di lavoro, andavo a vivermi la mia adolescenza notturna, forse anche troppo matura, essendo cresciuto così precocemente ed avendo perso quegli anni che mi sarebbero stati utili per avvicinarmi all’amore per l’arte. Andavo in locali notturni; trovando la forza di trascorrere quelle notti estive grazie all’alcool. Fumavo molto, fino ad un pacchetto al giorno di sigarette e oltre. Quando ho smesso di fumare a ventisei anni ero già arrivato ad un pacchetto e mezzo. La mattina presto tornavo a casa alle cinque per poi alle sette o alle undici della stessa mattina andare di nuovo al lavoro. Questa è stata la mia adolescenza; un’adolescenza che era lo strascico di un’infanzia di solitudine e di incomprensioni. Stavo morendo dentro di anno in anno; mi stavo amalgamando al tutto, diventando uno dei tanti, uno come “tutti gli altri”; uno di quelli che vivono gettando la propria vita, dando la colpa al mondo, senza avere la capacità e gli strumenti per guardarsi allo specchio e riconoscersi.

Così sono arrivato ai miei diciotto anni di età completamente svuotato, senza sapere chi fossi e cosa volessi; senza interessi, piatto come piatta era la società in cui ero immerso. Avevo una vita, ma la stavo gettando di anno in anno nel seguire il nulla.

Un unico sogno avevo ed era quello di seguire le orme di mio padre nel lavoro; ma mi era stato negato anche questo, a causa delle mie condizioni fisiche. Sembrava che mi fosse stato proibito anche di sognare.

Io credevo di non poter realizzare nessun sogno, perché sentivo che uno come me, non era utile in questa insana società di sani

Non mi veniva allora riconosciuto nessun talento dal mondo degli adulti, ero considerato un bracciante; il bracciante di me stesso; come lo erano stati finora i miei bisnonni, i miei nonni ed i miei genitori. Un ragazzo che dall’età di tredici anni e per le nove estati successive si guadagnava quei pochi soldi per vivere in maniera più indipendente e per non gravare economicamente sulla famiglia; un ragazzo che studiava in inverno con l’idea di diventare, in un futuro incerto, qualcuno di diverso da quello che era.

Nulla di più sano, e di lodevole per un adolescente, si potrebbe pensare. Giusto!

Ma qualsiasi azione che si compia nella vita con l’intento, senza saperlo, di dimenticarsi,  per la paura di vedersi, porta indubbiamente al perdita di se stessi; alla perdita di quell’io essenziale, motore della vita di ogni singolo individuo.

Nessuno mi aveva insegnato ed aiutato a crescere, senza nascondermi da me stesso.  L’unica cosa che mi veniva allora riconosciuta, e mi veniva “permesso di vedere”, era il mio “difetto”; non esisteva nient’altro ad eccezione del mio essere diversamente inabile. Da un lato ero costretto a farmene una ragione della mia disabilità; dall’altro, per regole sociali, ero costretto a nasconderla per vergogna. In entrambi i casi vivevo male con me stesso e con gli altri.

Non è assolutamente da mettere in discussione che tutto quello che hanno fatto i miei genitori ed i miei nonni, nei miei confronti, è stato un immenso atto d’amore. Loro, come me e forse più di me,  hanno sofferto per la mia situazione fin da quando ero bambino e, per come è stato possibile, mi hanno aiutato sempre, e continuano a farlo, nonostante adesso viva a quattromila chilometri da casa. Hanno sempre tolto molto alla loro vita, dandola a noi figli. Forse le loro scelte erano spinte dal fatto che in realtà mi vedevano soffrire e non sapevano come comportarsi.

Così come io mi sentivo cieco senza le mie “protesi”, così loro non sapevano come comportarsi di fronte al mio dolore.

Non si nasce genitori, come non si nasce uomini, ma lo si diventa, giorno dopo giorno; ad ogni caduta una nuova occasione per ritrovare la forza per rialzarsi ed andare avanti; imparando, o cercando di imparare, dai propri errori.

Ogni genitore, nel cammino della propria vita, sceglie per i propri figli quello che ritiene sia più giusto per loro. Ho capito con il tempo, che prima di tutto nella vita bisogna imparare ad ascoltare e ad ascoltarsi, senza pretese.

Nulla mi è dovuto in questa vita; tutto quello che già possiedo, o tutto quello che voglio e vorrò ottenere, dipende e dipenderà esclusivamente dalle mie forze, ed ovviamente dalla fortuna; fortuna, che però bisogna imparare a riconoscere e a guadagnarsi, con rispetto.

Mio padre e mia madre facendo delle scelte per me, mi hanno cresciuto con sani principi fin da bambino, ma con l’unico errore di non avermi visto ed accettato per quello che ero e per quello che potevo essere, se solo avessero riconosciuto in me la mia capacità di vedere il mondo in maniera diversa.

“Io oggi sono il risultato della storia della mia vita; domani sarò l’ulteriore passo del cammino che sto percorrendo oggi.”

(Antonio Villani)

 


***

Muse inquietanti

APPARENZE 

 

Dopo il conseguimento del diploma al liceo scientifico, provai ad entrare alla facoltà di medicina, all’Università di “Tor Vergata” di Roma. Superai i test d’ingresso, ma per mancanza di posti non riuscii ad entrare in graduatoria;  fui così costretto ad optare per la facoltà di biologia, che frequentai con ottimi risultati per due anni. Inaspettatamente, all’improvviso, cambiai totalmente indirizzo, iscrivendomi alla facoltà di lettere e filosofia. Dopo ulteriori due anni, presi la definita decisione di abbandonare per sempre l’Università.

In apparenza sembrerebbe la storia di uno dei tanti ragazzi, che dopo la maturità decidono di iscriversi all’Università per prendersi un “pezzo di carta” per aprirsi una strada nel mondo del lavoro. Una storia, tra le tante, andata male. Ma l’apparenza non è la realtà; ciò che ci appare e che critichiamo è soltanto una soggettiva interpretazione della realtà.

” Molti degli uomini preferiscono (vedere)  l’apparenza più che l’essenza, scostandosi dal giusto.”

(Eschilo)

L’apparenza è qualcosa di labile e di interpretabile, mentre  la realtà è azione; azione che nella sua concretezza segna inevitabilmente il destino di ogni essere umano, rendendolo schiavo o padrone di se stesso.

Ed io adesso cammino sapendo di essere la concretezza di me stesso.

SOGNO INFRANTO

 

Fin da bambino sognavo di fare l’agente sotto copertura nei reparti speciali dei carabinieri. Volevo vedermi sano, e contribuire a fare qualcosa di importante; volevo che i miei genitori non mi vedessero come un difetto, ma come una persona capace, con le proprie forze, di vivere nel loro mondo. A diciotto anni fui esonerato dal servizio militare, a causa del mio problema alla vista; iniziare la carriera militare nei carabinieri era soltanto un sogno che mi ero portato avanti per tutti quegli anni. Crescendo lo sapevo che non avrei potuto seguire le orme di mio padre, indossando una divisa; ma ingenuamente, allo stesso tempo, mi illudevo che non fosse così.

Non riuscivo a riconoscermi per quello che ero: un ragazzo che percepiva e vedeva il mondo in maniera diversa, vivendo nella propria solitudine e nell’incomprensione della sua diversità.

UNIVERSITA’ – SCELTA DOVUTA

 

La scelta della facoltà di medicina mi era stata imposta in un certo qual modo, dai miei genitori. Se avessi avuto davvero la possibilità di scegliere, mi sarei iscritto da subito alla facoltà di architettura. Ma quel tipo di lavoro, che sarebbe comunque stato difficile da svolgere a causa del mio problema alla vista, nella mentalità dei miei genitori, non esisteva, non avrebbe dato, a loro dire, una stabilità economica.

Io non capivo, non vedevo, non sapevo cosa volessi dalla vita.

Ritenevo che fosse giusto seguire i consigli che mi imponevano i miei genitori; non avevo la forza per il dialogo e lo scontro, anche perché nella mia famiglia, forse per motivi culturali, il dialogo non c’era mai stato. Non ricordo che a quel tempo qualcuno mi avesse chiesto opinioni personali in merito al mio futuro.

Comunque inconsciamente non ero io a scegliere per me, ma era il mio problema agli occhi a decidere la strada che, secondo i miei genitori, avrei dovuto percorrere. Non ero io il padrone di me stesso. Quel sistema consolidatosi in me per venti anni mi aveva reso una persona infelice, incapace di capirsi e di sentirsi libera di essere se stessa. Da un lato crescendo sentivo che dentro di me poteva esserci molto di più, rispetto a quello che si vedeva; dall’altro ero cresciuto in un ambiente molto semplice che rinnegava ogni forma di diversità; un ambiente in cui era impossibile sentirsi liberi; un ambiente in cui bisognava sempre confrontarsi con gli altri e dove io, per natura, ero sempre, a priori, svantaggiato, a causa del mio problema.

TEATRO – IL PRIMO AMORE

 

Ecco allora che contemporaneamente all’università ed alla facoltà di biologia, mi iscrivo per pura casualità ad un scuola di teatro nella provincia di Roma; scuola che frequenterò per tre anni. Da quel momento in poi,  iniziai a comprendere che anche io, come tutti gli altri, potevo e avevo qualcosa da dire. Avevo trovato nell’arte il mio strumento di espressione. Questo desiderio cresce in me di anno in anno e così inizio la mia ribellione; contro me stesso e contro il mondo; quel mondo che fino ad allora mi aveva imposto delle regole, non riconoscendomi e non accettandomi per quello che ero e per quello che stavo diventando.

LA FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA

 

Decido di lasciare la facoltà di biologia, per iscrivermi alla facoltà di lettere e filosofia con indirizzo spettacolo, iniziando questa nuova avventura con l’illusione di acquisire conoscenze tali, che mi sarebbero state utili per la mia crescita. Presto mi accorsi che l’università era un luogo dove si studiava senz’anima. Si dimenticava quello che si era studiato, ed insieme ad esso, ci si dimenticava l’intero processo. Dopo due anni sono stato costretto a lasciare di nuovo l’università e questa volta definitivamente. Troppo inutile era per me quell’ambiente povero di spirito e senza speranze. Se fossi stato un altro avrei continuato e finito l’università;  ma non potevo accettare dei compromessi, a quel tempo per me il sapere e la voglia di sapere erano vitali. Vedere che il sapere, come fonte di crescita umana ed intellettuale, veniva degradato da saccenti professori universitari, mi faceva talmente male da volerne stare lontano. Accettare un compromesso del genere avrebbe significato per me far parte di quel sistema.

Io mi sentivo “diverso”, volevo vederlo il mondo e renderlo migliore e non esserne complice.

CONCORSI NELLE SCUOLE DI TEATRO ITALIANE

 

Contemporaneamente all’Università, inizio a prepararmi per partecipare ai concorsi indetti dalle più importanti scuole nazionali italiane di teatro e di cinema. Provo ad entrare con insuccesso al “Centro sperimentale di cinematografia” di Cinecittà a Roma. Ero troppo a digiuno di nozioni cinematografiche per iniziare a studiare. Ed io mi presentai al colloquio ingenuamente, credendo che quel tipo di  scuole servissero per studiare e per acquisire conoscenze e per crescere! Evidentemente mi sbagliai!

L’anno successivo provo all’Accademia teatrale “Silvio D’amico”, a Roma,  dove brillantemente supero le tre prove di ingresso, ma inspiegabilmente non entro. I posti erano venti ed io arrivai ventunesimo. Nonostante avessi i voti migliori del corso mi eliminarono. Arrivai primo dopo l’ultimo.

La mafia non è soltanto chi uccide, ma chi permette che tutto questo accada.

Credendo di essere stato preso, facendo confronti con i miei compagni di corso, mi avvicino alla graduatoria e d’improvviso il gelo; intorno a me persone che gioiscono, e mi abbracciano convinti che io ce l’avessi fatta insieme a loro, invece no. Io avevo confidato soltanto nelle mie forze e non ce l’avevo fatta. A quel punto il gelo si trasforma improvvisamente in rabbia ed in desiderio di giustizia.

A vent’anni ero così ingenuo, da credere che io potessi cambiare il mondo, solo perché ero una persona onesta.

Esigevo onestà e chiarezza da un mondo che non vedevo, ed ora che iniziavo a vederlo così sporco e corrotto non avrei voluto più averci a che fare con lui.

Il direttore mi mandò a chiamare dopo che scalciante urlavo furioso contro l’ingiustizia subita. Io entrai in ufficio, tremante, ma a testa alta, chiedendo spiegazioni concrete. Ma l’unica risposta che mi venne data dal direttore fu la seguente: “Checché se ne dica in accademia non ci sono raccomandati. Sai giocare a Poker? Ebbene se perdi al gioco e dal tavolo non ti alzi con il sorriso, su qual tavolo non ti ci faranno più sedere.” E fu così che l’anno successivo su quel tavolo non mi ci fecero più sedere.

Dopo pochi anni cacciarono il direttore dall’accademia. Era scoppiato uno scandalo che aveva coinvolto diversi dirigenti e professori. Quello che avevo iniziato da solo come un folle, è stata solo una scintilla rispetto a quello che poi accadde dopo, quando io già ero partito per la Russia.

Alla Scuola del “Teatro Piccolo” di Milano, allora sotto la direzione di Luca Ronconi, mi mandarono via alla prima fase, dopo che avevo fatto l’uditore, assistendo alle lezioni per qualche periodo. Perché? Nessuno mi ha mai dato una risposta; anche lì qualcuno doveva entrare al mio posto. Sembrava come se non potessi permettermi il lusso di entrare meritatamente, in scuole addette a pochi.

Mi sono state più volte dichiaratamente riconosciute delle qualità, ma non il diritto allo studio. Non potevo far parte di quel sistema.

Ancora oggi in Italia, dopo diversi anni trascorsi in Russia e dopo aver conseguito con il massimo dei voti il diploma in una delle Accademie più importanti al mondo, sono considerato un estraneo.

“Nemo propheta in Patria”  

Con il tempo ho compreso quanto io sia stato in realtà fortunato nel non aver frequentato quelle scuole; mi avrebbero reso un automa, povero, senza guide a cui far riferimento, in un contesto teatrale vuoto di sentimenti, primo di emozioni.

RINCORSA AL SAPERE

 

Ed ecco che allora inizio a recuperare gli anni persi, leggendo molto, fino a cinque libri alla settimana, chiudendomi ancora di più nella solitudine, ascoltando musica classica, guardando film e cercando di diventare nel corso di qualche anno una fonte di sapere tale che mi permettesse di competere con quel mondo. Inizia una vera e propria lotta tra ciò che ero prima e ciò che volevo essere. Ma non potevo competere alla pari; in primis per il mio problema agli occhi e poi perché non avevo maestri a cui far riferimento e ai quali rivolgermi. Iniziavo a comprendere che io avevo un valore come uomo e se avessi studiato sarei potuto diventare un ottimo professionista; ma nessuno in Italia riconosceva il mio valore; vedevano i miei occhi “strani”, il mio sguardo “strano”. Così ero costretto a sentirmi dire da quei falsi miti. Nessuno voleva insegnarmi e darmi il mio diritto allo studio; lo studio, quello vero, sembrava che non esistesse; mentre l’effimero studio universitario, che “sfornava vuoti a rendere”, era sempre aperto a chi avesse voluto accettare quei compromessi.

PICCOLI PASSI

 

Contemporaneamente in quegli anni seguivo il doppiaggio con uno dei doppiatori più importanti italiani, Luciano De Ambrosis. Volevo imparare una tecnica che mi facesse sentire un attore, tra gli attori. Ho seguito i turni di doppiaggio per due anni negli studi di doppiaggio CDC-Sefit di Roma, dalla mattina alla sera con la vaga speranza che riuscissi a lavorare, ascoltavo e guardavo, cercando di imparare un mestiere; ma quel lavoro non era fatto per me. Anche lì caste, anche lì “i figli di papà”, anche lì non c’era la possibilità vera di farsi strada. Ho frequentato inoltre per tre anni corsi di danza grazie all’aiuto di Alberto Maggi, solista del teatro a “La Scala” di Milano. Nello stesso tempo continuavo le lezioni di canto private con l’insegnante dell’accademia di Roma, Claudia Martino-Aschelter. Se non c’era la possibilità di frequentare accademie nazionali che potessero guidarmi nel mondo del lavoro, dovevo trovarmi da solo una strada affinché mi potessi sentire vivo. A quei tempi avevo lasciato anche il mio lavoro estivo a Castellabate, mi volevo dedicare  a me stesso, volevo diventare attore e non uno dei tanti; volevo amare la conoscenza e utilizzare il sapere per migliorarmi e di conseguenza migliorare il mondo che mi circondava; un mondo che nella realtà dei fatti non faceva altro che rifiutarmi.

LA PSICANALISI

 

Ma ecco che le mie aspettative non coincidono con la realtà.

Nel giro di quattro anni si susseguono gli insuccessi nelle scuole di teatro; le delusioni universitarie; l’impossibilità di avere un lavoro che mi soddisfacesse; la lotta contro me stesso e contro i miei genitori, che non capendo i miei sforzi, non accettavano le mie scelte.

Ero convinto che il mondo mi  considerasse un fallito. 

“No – mi ripetevo dentro di me – non sono un fallito, io  sono pieno del mio mondo, dentro di me un intero mondo da poter scoprire.” 

Ma  il tempo passava e non ce la facevo e non sapevo come uscire da quella situazione. La depressione, questa silenziosa malattia dell’anima, piano piano iniziava a farsi sentire; mi chiudevo sempre di più nel mio mondo, rifiutando l’esterno: “Voi che vivete silenti in questa società corrotta, opportunista, cieca, siete il cancro del sapere; siete il cancro di voi stessi.” Avevo tutto e tutti contro, soltanto i miei libri potevano aiutarmi ad imparare a sognare. Sempre più chiuso al mondo e sempre più desideroso di riconoscimenti che non sarebbero mai venuti. Ed è così che comprendo improvvisamente di aver bisogno di aiuto;  iniziava a manifestarsi la voglia di suicidarsi e di farla finita con tutta questa incomprensibile sofferenza. Ma non ne avevo il coraggio, non riuscivo ad uccidermi; avevo paura di soffrire, ero un codardo che non aveva nemmeno il coraggio di farla finita con se stesso.

Mi rivolgo ad uno psichiatra che dopo una consultazione mi consiglia di iniziare una psicoterapia. Scoperto di non essere pazzo, ma solo confuso, inizia il mio cammino nella comprensione di me stesso. Una psicoterapia che è durata cinque anni, fino alla mia partenza per la Russia. Allora non avevo un lavoro e avevo bisogno di soldi per poter iniziare e proseguire l’analisi, i miei genitori contrari a quanto stessi facendo, comunque pagarono i primi mesi, ma poi mi ritrovai a dover nuovamente mettermi alla ricerca di un lavoro, per pagare le spese. Io volevo fare l’attore e mi trovavo a fare altro; spendevo il mio tempo per guadagnare soldi da investire nella cura dell’anima, ma contemporaneamente non potevo curarla con la felicità. Non potevo essere felice facendo quello che desideravo. Un cerchio dal quale, pensavo, non ne sarei mai più uscito.

La depressione non mi abbandonava. Me la portavo dietro, cercando di combatterla per come potevo. I sabati e le domeniche  per quasi due anni ho lavorato in fabbrica di notte per dodici ore continue. Erano ancora i tempi dell’università. Poi ho iniziato a fare più lavori contemporaneamente: Ho lavorato per quattro anni di nuovo come cameriere servendo ai matrimoni, lavorando per sedici ore al giorno, quattro o cinque volte a settimana, servendo fino a quaranta matrimoni la mese, al limite delle mie forze. Poi ho lavorato come centralinista in un call center per compagnie telefoniche italiane; poi ancora contemporaneamente come agente di viaggi in diverse agenzie. Quando tornavo a casa, sapendo che dovevo schiavizzarmi per potermi pagare il mio percorso psicanalitico, senza avere la possibilità di studiare come davvero avrei voluto, prendevo insieme agli antidepressivi prescrittimi una quantità cospicua di superalcolici che mi allontanassero da quella cruda realtà.

C’era un  desiderio di morte incosciente; avrei voluto che la morte mi venisse nel sonno, calma, ad alleviare le mie sofferenze, una morte che avrebbe cancellato ogni incomprensione, ogni dolore.

Non bevevo mai durante il giorno, bevevo sempre prima di andare a letto, a casa ed in solitudine, per non sognare, per smettere di sognare. Per smettere di compiere dei passi in quell’inutile vita che stavo vivendo. Non potevo essere quello che volevo e vivevo in una società che continuava a non accettarmi. Forse davvero c’era qualcosa in me di sbagliato, forse davvero ero inutile a questo mondo.

I miei occhi mi potevano abbandonare da un momento all’altro, senza segni di miglioramento; tutti gli forzi che facevo per cercare di liberarmi dalla mia infanzia e dalla mia adolescenza, tutti i sacrifici che facevo per farmi accettare, erano inutili.

Per cinque anni, durante il percorso psicanalitico ho approfondito molti aspetti; ogni piccolo passo in avanti corrispondeva a mesi di lavoro di terapia. Non potevo non farlo.  Stavo morendo dentro, e mentre morivo, mi sentivo già morto.

UN COLPO DEL DESTINO

 

Dopo due anni di analisi già avevo ottenuto dei piccoli risultati; avevo lasciato l’idea del teatro; ormai avevo capito che per essere un vero artista, bisognava prima di tutto guarire da se stessi.

I momenti più bui sembrava che li avessi lasciati alle spalle.

Ma ecco che un altro evento mi travolge, un altro colpo del destino. Questa volta ancora più grande, ancora più incomprensibile. Stavo tornando a casa dopo la mia ennesima seduta dallo psicanalista. Avevo ventiquattro anni. Non bevevo ormai, e non usavo nessuna sostanza per mantenermi; soltanto un duro e minuzioso lavoro su me stesso, per raccogliere i pezzi della propria vita e per poter guardare avanti con maggiore sicurezza. Era una piovosa giornata di novembre, come quelle che spesso si vedono nella capitale in autunno. Ero di ritorno dalla seduta psicanalitica e stavo tornando a casa. Ero arrivato alla stazione per prendere la macchina e tornare a casa, come spesso succedeva. Ma quel giorno a differenza degli altri giorni ritardai di quindici minuti rispetto al solito orario. Quei quindici minuti sono stati fatali. Mi sono messo alla guida in macchina; piovigginava. In lontananza il semaforo verde; ero in discesa; mi avvicino al semaforo ad una velocità non superiore ai trenta chilometri all’ora, il semaforo era ancora verde; il parabrezza leggermente appannato. Mentre avevo già occupato l’incrocio e lo stavo superando, ho visto con la coda dell’occhio che il semaforo era diventato arancione, e come spesso succede mi accingo a superarlo; c’era molto traffico ed ero in un centro abitato, sulla destra c’erano della macchine parcheggiate che non dovevano esserci. Ma proprio tra due di quelle macchine parcheggiate in divieto di sosta, una donna a testa bassa, distratta da quel tempo, si immette in strada. Sento un colpo pesante sul cofano e poi sul parabrezza, mi getto sull’altra corsia coperto da quel corpo piombatomi sulla macchina. Mi fermo, scendo sotto la pioggia senza realizzare cosa sia successo, guardo a terra e vedo il corpo; esce sangue dall’orecchio, chiamo immediatamente l’ambulanza, i carabinieri. Non si muove, realizzo, tremo, ho paura e sono di nuovo solo. Le macchine parcheggiate in divieto di sosta, vengono sgomberate dai proprietari prima che i carabinieri potessero arrivare e fare il sopralluogo. Mi siedo sotto la pioggia sul ciglio della strada e aspetto le conseguenze di quell’orribile gioco del destino.

Per anni non riuscivo,  ed avevo paura di sognare ed improvvisamente mi trovai catapultato in un incubo.  Pioveva fuori, in strada, sulla macchina, sul corpo della donna e dei soccorritori, ma dentro di me c’era una terribile tempesta di dolore.

IL CAMBIAMENTO

 

Tutto ciò che accade di incomprensibile e di doloroso nella nostra vita, diventerà presto un insegnamento importante; una guida che ci accompagnerà per mano verso il nostro destino.

L’analisi continuava. E dopo l’incidente dovevo andare avanti. Non era il momento per lasciarsi andare; dovevo stringere i denti e cercare qualcosa di migliore, rispetto a quello che avevo avuto finora. Dopo tre anni da quell’incidente presi il coraggio per andarmene via dall’Italia, da quel Paese che non solo non mi stava aiutando, ma mi stava rendendo un nulla. Avevo smesso di fumare, ormai ero arrivato ad un pacchetto e mezzo di sigarette al giorno e mi stavo uccidendo proprio quanto stava nascendo dentro di me la voglia di vivere; avevo iniziato a fare sport per tenermi in forma fisicamente e sentirmi sempre pronto, indipendentemente dalla strada che avessi deciso di percorrere.

Continuavo a lavorare sempre senza sosta.

L’idea del teatro e dell’amore per l’arte non mi aveva in realtà mai abbandonato. Ed ecco che dentro di me rinasce la voglia di sentirmi un artista, un artista vero,  ma con la consapevolezza del fatto che questa volta ero pronto; avevo lavorato su me stesso ed ero pronto a sentirmi, a vedermi, ad ascoltarmi, ad agire senza che qualcuno mi potesse inquinare.

Era giunto il momento di crescere verso la giusta direzione. Non ero io, quello che non andava, ma era quello che mi circondava che non andava bene per me.

Spedisco circa venti richieste in tutte le accademie più importanti del mondo. Mi rispondono, ma chiedendomi cifre che io non mi sarei mai potuto permettere. Cosa fare allora? Continuavo a lavorare e a spendere i soldi in analisi, non avevo svaghi, lavoro lavoro e ancora lavoro. Un giorno mi capitò tra le mani  un sito di un’associazione privata  che  elargiva borse di studio per esperienze all’estero. Leggo che a quel programma erano incluse diverse scuole ed accademie a livello mondiale tra cui l’Accademia Teatrale di Stato di San Pietroburgo. La Russia la patria del teatro della vita. Il teatro di Kostantin Sergeevich Stanislavskij! Si proprio lui. Il maestro! Era quello che avevo sempre sognato dal primo momento in cui iniziai a studiare teatro. La scuola più importante e completa al mondo era un sogno che sarebbe potuto diventare realtà. Ma come fare con la lingua? Io non conoscevo il Russo e per me era impensabile poterlo studiare. Ma non mi arresi. Contemporaneamente all’approfondimento della lingua inglese, inizio a studiare da solo il russo. Comincio dall’alfabeto, poi con le nozioni base, poi…poi non c’era più tempo; dovevo partire sapendo dire “Grazie” (Spasibo), ma avendo difficoltà di articolazione nel dire “Salve”. (Sdrastvuite!)

I soldi  che avevo accumulato con tanta fatica mi permettevano di fare soltanto un’esperienza di tre mesi come studente esterno. Consegno la domanda, con la speranza che l’associazione italiana  mi desse la borsa di studio. Dopo poco tempo ricevo la risposta dall’Accademia a San Pietroburgo che era pronta a ricevermi; parallelamente vengo a sapere invece che la borsa di studio dall’ente italiano non l’avevo vinta. Non mi sarei aspettato una risposta diversa. Ma era giunto il momento di volare. Ero pronto a lasciare l’Italia per tre mesi; un Paese che si  è sempre rifiutato di accogliere i meritevoli, premiando le mediocrità. L’Italia per me ancora oggi è un Paese splendidamente ricco di cultura e di storia, ma incapace di migliorarsi e di crescere. Un Paese a crescita zero che continua a peggiorare di pari passo alla società che lo sta distruggendo; chi lo vive lo distrugge e chi lo subisce è impossibilitato a reagire.

Fu così che una mattina in pieno inverno nel mese di febbraio, il 6 febbraio, decisi di lasciare l’Italia per volare in Russia, a San Pietroburgo. Tre mesi. Soltanto tre mesi. Tre mesi pieni nella mia libertà di sentirmi me stesso.

Inseguivo un sogno che forse  presto sarebbe diventato realtà!

 


***

Per imparare a prendere il volo

 

Rincorriamo i nostri sogni,  partendo sempre con ritardo, con il pretesto di non essere mai pronti a fare il primo passo; mentre loro, i sogni, lì, immobili, ci osservano e ci  attendono come un’amante lontana; una tenera amante, che da dietro una finestra, attende paziente il nostro arrivo. Lei sempre pronta ad abbracciarci, e noi lontani, insicuri di poter fare così tanta strada per poterla raggiungere. Ci sentiamo completamente nudi di esperienza, rimandiamo al domani quello che avremmo potuto iniziare oggi. Un altro prezioso giorno sarà già trascorso senza di noi.

Soltanto l’amore, quello vero, può permetterci di fare il primo passo, poi il secondo, poi ancora il terzo, seguendo il nostro cammino, che sarà diverso da chiunque altro; spesso cadendo, spesso con le gambe che ci  faranno male, spesso con pause necessarie per recuperare le forze, ma tutto con un unico scopo: raggiungere quell’amore che ci attende, che non ci tradisce, che ci rende persone migliori.

Perdiamo pepite di tempo avvolti dalle scuse più banali,  per non agire, per rimandare a domani; ad un domani che è il frutto delle nostre azioni nel presente.

Saremo la conseguenza del nostro presente.

Più siamo soli, prendendoci le responsabilità delle nostre scelte,  e più il nostro cammino sarà  faticoso, pieno di difficoltà e di cadute. Non sempre sarà possibile percorrere la strada come l’avevamo immaginata; spesso dinanzi a noi il percorso si presenterà peggio di come credevamo; ci saranno momenti duri in cui si dovranno inevitabilmente, da soli, fare delle scelte e farle nei tempi giusti per non rischiare di perdersi. Altre volte, invece, inaspettatamente la strada sarà in discesa, potremo riposare, contemplare la bellezza che ci circonda e recuperare le forze per continuare sulla giusta strada.

Un cammino unico, spesso controcorrente, ma libero.

“Colui che segue la folla non andrà mai più lontano della folla. Colui che va da solo è più probabile che si ritroverà in luoghi dove nessuno è mai stato”

(Albert Einstein)

Più quella finestra, da dove il nostro sogno ci osserva, sarà lontana e più ci sembrerà difficile raggiungerlo. Spesso il desiderio di tornare indietro sarà più forte della voglia di continuare. Ci si faranno delle domande e si vorranno delle risposte che nessuno potrà darci, se non noi stessi. Se nel profondo si ha la consapevolezza che quella è la strada giusta da percorrere per il raggiungimento della felicità, allora guardandosi indietro e vedendo i sacrifici già fatti,  gli ostacoli già superati,  le emozioni già provate, le gioie ed i dolori già vissuti, si vorrà soltanto andare avanti, e andare avanti con più forza, con più determinazione, con più coraggio. Sarà l’esperienza a renderci capaci di agire e di reagire con forza alle situazioni che si presenteranno. Nulla sarà impossibile se impariamo ad ascoltarci, a comprenderci ad accettarci per quello che siamo; nulla sarà impossibile se impariamo a non dimenticarci. Ognuno di noi possiede doti tali, che se solo avesse il coraggio di riconoscersi, potrebbe cambiare radicalmente la propria vita. Bisogna essere capaci di arricchirsi giorno dopo giorno, passo dopo passo, dando uno scopo al proprio divenire, iniziando dal presente.

Bisogna credere di potercela fare; bisogna imparare a non arrendersi alla prima difficoltà, con la chiara consapevolezza che presto ci saranno altri ostacoli più alti da dover superare. Ognuno di noi ha il dovere verso se stesso di rendere il mondo migliore. Ognuno di noi ha il dovere di arricchire la sua esistenza con la bellezza dei propri sogni. Soltanto un uomo felice può rendere meravigliosa la sua esistenza e quella degli altri. Un uomo felice è colui che ha la possibilità di sognare, e di realizzare i propri sogni  partendo da se stesso; un uomo felice è colui che, giunto alla comprensione di se stesso, ha il coraggio di cambiare, cercando di migliorare il mondo che lo circonda.

Per quanto mi riguarda, nel mio piccolo, anche io presi la decisione di provare a cambiare il mio mondo, prima con l’illusione, poi con l’incertezza ed infine con la consapevolezza di poterlo fare. 

Più si desidera qualcosa di importante per la propria vita e più la vita stessa ci mette a dura prova, costringendoci a fare delle scelte che segneranno per sempre il nostro futuro.

PRENDO IL VOLO

 

Sono partito che ero un ragazzo di periferia, in cerca di conferme, e sono diventato dopo anni di duro lavoro, un uomo al centro del mondo, con la certezza di essere il padrone di me stesso.

“Non mi considero un uomo di periferia; il centro dell’universo sono io; da me parte ogni cosa, mentre tutto il resto, possedendo una vita propria, mi ruota intorno. Ognuno di noi ha il dovere di sentirsi il centro dell’universo. Siamo una fonte di calore; siamo il sole che con i suoi raggi illumina e riscalda ciò che ci circonda.”

Non decisi il giorno della mia prima partenza in base alle comodità che avrei potuto trovare; non mi posi nessuna domanda su come sarebbe stato il freddo russo, scelsi di partire seguendo il mio istinto, con una grande curiosità, ed un enorme  desiderio di voler cambiare; senza ripensamenti, senza dover rimandare al domani. Volevo vivere al massimo ed in maniera istintiva; volevo iniziare a percorrere quella nuova strada che da lì a poco avrei dovuto intraprendere e che avrebbe cambiato la mia vita. Il destino, guidato da me, mentre lo facevo illudere che mi guidasse, ha voluto che partissi d’inverno; in pieno inverno. Prima di atterrare, dall’aereo, al buio delle tre di pomeriggio, si intravedeva un’immensa distesa di ghiaccio e di neve, che dall’alto tingeva di grigio scuro i campi ed i tetti degli alti palazzi di periferia della capitale del nord; le strade erano interminabili solchi arancioni che fendevano il buio.

Cosa mi sarebbe accaduto da lì a tre mesi? Dove stavo andando? Ero ormai giunto in Russia, in un Paese a me completamente estraneo, mentre il termometro a San Pietroburgo, a febbraio, al mio arrivo, segnava già meno venticinque gradi centigradi.

Io ero atterrato, con il mio bagaglio di poca esperienza, ma di tanta volontà, da diverso in un Paese diverso.

Arrivando in Russia, ebbi l’opportunità, già da subito, di approfondire il concetto di diversità. Ero partito con la consapevolezza e con il timore, che il mio problema agli occhi potesse di nuovo crearmi dei momenti difficili e di incomprensione e che anche in Russia potessero giudicarmi non per quello che ero, ma per quello che sembravo, indossando le mie spesse lenti; quelle stesse lenti che, mio malgrado, avevo imparato ad accettare con gli anni ed alle quali ormai mi ero rassegnato. In realtà da lì a poco mi sarei dovuto occupare di un altro tipo di diversità, quella culturale e sociale di un Paese, che fin da subito si era dimostrato complesso e lo spesso delle volte incomprensibile; un Paese che però, allo stesso tempo, nella sua complessità ed imprevedibilità, con gli anni, è riuscito ad arricchirmi; è riuscito a permettermi di comprendere meglio il mio mondo e di percepire con “occhi diversi”, l’essenza del mondo che mi circonda. Le differenze culturali, sociali e storiche tra il Paese di provenienza e quello di adozione, creano inevitabilmente delle incomprensioni culturali.  Si viene visti all’estero come degli inconsapevoli  rappresentanti del proprio Paese di origine; inconsapevoli rappresentanti di quel Paese che, nella realtà dei fatti, si è dovuto lasciare per conquistarsi, altrove, l’occasione di potersi nuovamente ritrovare.

Sono emigrato per arricchire la mia strada di sogni, lontano dalla superficialità, dalla prepotenza e dalla falsa perfezione di quello che sarebbe dovuto essere il mio Paese. Sono andato via da un’Italia e da un popolo di falsi idoli, che mi ha rigettato per quello che ero; rifiutandomi, non riconoscendomi, spogliandomi della mia individualità; ed ecco che all’improvviso mi sono ritrovato all’estero ad essere inconsciamente un ignaro rappresentante di tutti quei luoghi comuni, che avevo da sempre combattuto, respinto e negato che mi appartenessero.

UN PESCE FUOR D’ACQUA

 

Sono atterrato al vecchio aeroporto internazionale di San Pietroburgo in quel buio pomeriggio degli inizi di febbraio. Tutto era vecchio intorno a me, tutto apparteneva ad un passato di cui io non sapevo assolutamente nulla. Il buio ed il freddo si intravedevano dalle ampie vetrate dell’aeroporto, lungo il percorso obbligato, verso il controllo passaporti; fioche luci a neon facevano fatica ad illuminare quel pavimento consumato di piastrelle scure. Non mi rendevo ancora conto di dove fossi; mi dirigevo, come un burattino, lì dove mi indicavano, in una lingua di cui non sapevo in realtà assolutamente nulla. Tutto era stranamente privo di colori. Era come se fossi stato catapultato in un film in bianco e nero, la cui pellicola però si era ormai già ingiallita dall’usura. Gli unici elementi pallidamente colorati che si distinguevano, erano gli indumenti dei pochi passeggeri e le divise degli addetti ai lavori dell’aeroporto.

Giunto al controllo passaporti a mia insaputa, ma soprattutto per mia ignoranza, non sapevo che dovessi compilare la carta di immigrazione: un piccolo modulo di carta, in duplice copia, completamente scritto in lingua russa. Mentre lo compilavo, concentrandomi su come dovessi farlo, alzai lo sguardo e mi resi conto che ero rimasto solo al controllo passaporti. Nel frattempo stavano giungendo nuovi passeggeri da un altro volo che avrebbero creato una nuova fila dinanzi a quelle poche cabine, ritardando ulteriormente la mia uscita di un’altra mezzora.

Superata la prima barriera, mi sono finalmente recato al ritiro bagagli. Davanti al nastro ero rimasto solo. C’ero io, con il mio sguardo speranzoso e qualche valigia abbandonata da sola che girava sul tapis roulant, ma che non era la mia. Pensavo che fossi uscito troppo tardi o che dovessero ancora consegnare le valigie. Ho aspettato ancora lì immobile, ma è stato tutto invano. La mia valigia era rimasta a Praga, dove avevo effettuato un cambio veloce di aereo; un cambio a quanto pare troppo veloce.

Ho conservato nella mia memoria ogni momento di quella giornata e di tutti quegli attimi della mia vita che ricordo legati a forti emozioni. È inevitabile lo stretto legame tra memoria ed emozione. È importante comprendere come il nostro cervello abbia la capacità di conservare informazioni a lungo termine, grazie ad eventi autobiografici di forte impatto. Rimane a lungo nella nostra mente tutto ciò che è correlato con qualcosa di emotivamente forte. E’ importante per me, attore, poter assimilare questo  meccanismo di memorizzazione per riuscire a trovare un proprio sistema che mi permetta di conservare, per quanto più possibile, le informazioni utili sui miei personaggi. Partendo dalle emozioni, si può inconsciamente raggiungere una raccolta di informazioni importanti a lungo termine sul personaggio, su noi stessi e sul mondo che ci circonda. Ecco allora l’importanza dell’emozione nel vivere un personaggio; l’importanza di non memorizzare il testo come semplice successione di parole, ma di viverlo attraverso le emozioni correlate ad un particolare evento; l’importanza di vivere il testo attraverso l’emozione legata al pensiero e al logico susseguirsi dei pensieri.

Ritornando a noi e alla mia storia: visto che il mio grande bagaglio arancione,  non era arrivato a destinazione, mi recai all’ufficio smarrimento bagagli. Mi sedetti e cercai di spiegare in inglese e anche con un po’ di preoccupazione, che non avevo ricevuto la mia valigia. Uscii dall’ufficio dell’aeroporto che non ero affatto sicuro di quello che ci eravamo appena detti con l’impiegata.

Ero un pesce fuor d’acqua! E avevo già iniziato a nuotare controcorrente.

Sono riuscito ad uscire dall’aeroporto quasi tre ore dopo l’atterraggio dell’aereo, ero già emotivamente stanco. All’aeroporto mi stava aspettando una ragazza, che doveva accompagnarmi al dormitorio dell’Accademia, dall’altra parte della città, sull’isola Vasilevskiy.

Si sono aperte le porte scorrevoli del piccolo aeroporto e sono stato travolto improvvisamente dal gelo; un vento gelido sul viso mai provato prima, pungente, repentino; mi ha dato uno schiaffo ed è fuggito via, poi di nuovo è tornato per darmene un altro e poi un altro ancora. Mentre respiravo, l’aria che usciva dai polmoni, si congelava immediatamente sul viso. Tutto era fermo; intorno a me il buio del cielo invernale del nord. Ero ormai diventato il protagonista di quel film in bianco e nero che avevo iniziato a vedere dall’aereo.

Quel freddo mi ha accompagnato per molti, molti inverni; un freddo che con il tempo sono riuscito a comprendere, ad apprezzare; raramente ad amare e lo spesso delle volte a maledire. Un freddo senza luce, immerso nel buio e coperto da un manto gelido di neve: scricchiolante tappeto di speranze, per milioni di persone.

Appena uscito dall’aeroporto, non ero ancora consapevole di quello che mi sarebbe ancora dovuto accadere e delle condizioni alle quali mi sarei dovuto adeguare, sia durante gli anni dell’Accademia che dopo. Ci sono stati molti momenti in cui ho vissuto la Russia ed ho imparato a viverla; altri momenti invece, quelli più difficili, ho dovuto subirla, affrontando da solo tutte le conseguenze che ne conseguivano.

Ed ecco che dall’aeroporto al dormitorio salgo su uno di quei piccoli pulmini gialli, pieno di persone accalcate, che da quel piccolo aeroporto dovevano raggiungere la metro, a circa trenta minuti di distanza. Gli autobus di linea passavano troppo raramente ed il freddo dopo dieci minuti, fermo sul ciglio della strada,  già iniziava a diventare insopportabile. L’aria nei pulmini era irrespirabile; il caldo all’interno intollerabile, anche perché ero partito dall’Italia vestito come se fossi dovuto andare a fare un’escursione sull’Everest, in solitaria. Si passava dai meno venticinque gradi centigradi in strada ai più venti all’interno; dai vetri, completamente coperti da una patina di ghiaccio, era impossibile vedere dove si fosse e dove si andasse. Fuori, il buio, intervallato da macchie arancioni di luci che lo fendevano; stavo percorrendo quei solchi che, con tanta curiosità, avevo notato dal finestrino dall’aereo.

Quello che mi aveva colpito della metro, invece, è stata la puntualità dell’arrivo dei treni segnata da un cronometro che si azzerava alla partenza di ogni nuovo treno, ogni tre o quattro minuti; poi mentre la metro andava avanti e si fermava, si poteva osservare la bellezza e l’eterogeneità di ogni nuova stazione, ognuna diversa dall’altra. C’era pulizia e compostezza; le scale mobili erano profonde, tra le più lunghe al mondo. Mi guardavo intorno come un bambino che per la prima volta vede qualcosa di nuovo, e nonostante tutto quello che mi era successo prima, dentro ero felice; ero felice di aver iniziato ad inseguire il mio sogno. Già da quel primo viaggio in metro in realtà si poteva percepire come la Russia fosse meravigliosamente contrastante. Da un lato la luce fioca all’interno degli vecchi vagoni, attraversati dai volti tristi e stanchi di passeggeri rassegnati ad una vita lenta di tanti impietosi inverni; dall’altro lato la bellezza dei palazzi, dei ponti, delle stazioni della metropolitana. Da un lato gli autobus che si fanno a lungo aspettare al freddo costringendoti a prendere mezzi di fortuna, dall’altro il cronometro che segna puntualmente la partenza di ogni metro, che in tutti questi anni non ho mai visto tardare. Questi e molti altri sono quei contrasti che mi hanno permesso di prendere la definitiva decisione di venire a studiare in Russia, e di resistere per così tanto tempo in questo meraviglioso Paese. Da un lato il caos, dall’altro la ricerca ed il raggiungimento della precisione; da un lato non ci sono strade asfaltate, dall’altro la Russia è  stata la prima ad andare nello spazio. Da un lato gli artisti sono i migliori al mondo, ed i più preparati; dall’altro sono costretti ad esercitare la loro professione nella più caotica disorganizzazione a discapito della loro professionalità.

La Russia: quel film in bianco e nero ingiallito dal tempo, ma reso immortale dalla forza della sua storia.

Alle sette e mezza di sera giungo finalmente al dormitorio dell’Accademia in via Opochinina sull’isola Vasilevskij; nell’aria sembrava che fosse già notte inoltrata. Con mia meraviglia nessuno mi stava aspettando, nonostante avessi contattato l’Accademia in largo anticipo, nei due mesi precedenti. Il posto al dormitorio per me non era pronto. Erano da tempo passate le sei, era già tardi, nessuno lavorava ad eccezione del guardiano notturno. Mi avevano proposto una camera provvisoria; con il guardiano saliamo per delle scale maleodoranti invase da schiamazzi in una lingua per me allora incomprensibile; arriviamo alla camera passando per un corridoio stretto, del secondo piano, debolmente illuminato, attraversando bagni e docce; nell’aria si sentiva un forte l’odore di muffa del legno bagnato, del vecchio pavimento. Entrai in quella camera come se fosse stato un ripostiglio di mobili e di vestiti vecchi; sporca, disordinata, buia. Non mi sarei mai immaginato, allora,  che quel posto sarebbe poi diventato la mia casa per i quattro anni successivi. Per ogni venti persone c’era una doccia con le tubature completamente arrugginite: le mattonelle azzurrine all’interno della doccia erano totalmente coperte da un velo marrone di ruggine che usciva dalla canalizzazione insieme all’acqua. C’erano tre bagni per venti persone; bagni che era sconsigliabile poter utilizzare normalmente. Solo dopo mesi sono riuscito ad abituarmi a vivere in quelle condizioni. Ma nonostante tutto ero felice. Ripensando a quei momenti, posso soltanto confermare come nella vita, ci si possa adattare a tutto se c’è la voglia di cambiare e di cambiarsi. All’apparenza sembrava che stessi facendo un passo indietro, ma nella realtà dei fatti stavo partendo da zero per ricominciare, e lo stavo facendo con le mie sole forze, verso la giusta direzione.

Ovviamente il primo impatto con quell’ambiente fu disastroso. Come avrei potuto resistere tre mesi in quelle condizioni? Tre mesi che poi sarebbero diventati quattro anni. Poi, quasi senza accorgermene, quei quattro anni sono diventati dodici.

La ragazza  che mi aveva accompagnato dall’aeroporto al dormitorio, cercò di telefonare per avere informazioni su dove mi sarei dovuto recare e con chi avrei dovuto parlare per ottenere una sistemazione meno indecorosa. Venni a sapere che soltanto l’indomani avrei potuto avere delle informazioni più dettagliate. Che  fare? Accettare quelle condizioni  che mi venivano proposte; prendere una camera d’albergo, con la consapevolezza che non avevo i soldi per pagarmi un albergo per un numero indefinito di notti; ritornare all’aeroporto e mettermi sul primo aereo per tornarmene a casa.

Ed ecco che, vedendomi perso in quel susseguirsi di strani ed inaspettati avvenimenti, Valeria mi propose di ospitarmi per quelle notti successive a casa dei suoi genitori. Fu come una goccia d’acqua nel deserto.

Mi ricordo che in quelle poche ore avevo vissuto un turbine di emozioni diverse; dalla gioia e dalla sicurezza della mia partenza, all’incomprensione totale di ciò che mi stava accadendo. Tutto un susseguirsi di emozioni che hanno reso quei momenti per me indimenticabili: la perdita, la tensione, la curiosità, la delusione, la rassegnazione. Sarei voluto tornare indietro e dimenticarmi di tutto quello che avevo vissuto in quelle poche ore dal mio arrivo. Volevo cambiare la mia vita in meglio e mi ritrovai solo, senza sapere dove.

Fu la mia prima esperienza in cui capii che nulla mi era dovuto nella vita. Compresi che per ottenere qualcosa dovevo ricominciare da zero, da quella camera maleodorante e piena di polvere, da quei bagni e da quelle docce. Io ero uno di quelle decine di ragazzi che come me erano venuti da ogni parte della Russia, dall’Europa, dalla Siria, dalla Corea, dalla Cina, per studiare ed avere la possibilità di credere in un futuro migliore. Ero  consapevole del fatto che mi sarei dovuto rimboccare le maniche per rendere vivibile la mia permanenza in Russia durante quei tre mesi.  Erano soltanto tre mesi che avrei dovuto vivere appieno, non avevo altra scelta se non reagire.

E fu così che iniziarono i miei primi giorni in Russia; mesi difficili, nuovi, ma nonostante tutto ricchi di speranze e di gioia. Quelli sono stati mesi di ricerca, mesi in cui riuscii a consolidare l’importanza delle mie scelte; scelte che avrebbero da lì a poco definitivamente cambiato la mia vita. Scelte che mi avrebbero aiutato a diventare un uomo diverso. Scelte di cui tutt’oggi ne sto pagando le conseguenze, menomale e purtroppo.

***

 


 

( Antonio Villani )